Mi
han
ferrato l’animo
come
un tempo si ferravano le corse di scheletri
che
vagavano tra le fruste
e gli insulti,
anch’essi
schiavi di tremende putrefazioni
volute
da deboli Esseri di Dio.
Oggi
hanno inventato la cravatta e la determinano di colori
per
dar sollievo ai colli.
Oggi
si grida anche solo ad un graffio
che
scalfisce la nostra libertà;
così
oggi sia,
il nostro sangue non inumidisca il peccato.
...Che
ingrato incubo…
Mi
alzo di soprassalto ti abbraccio vita mia e… si!
Ti
porto fuori in quel giardino
che anche in questo istante dà il suo
richiamo,
attraverso
profumi di certo non appartenenti
al
crudo e nauseate sapore dei sogni,
eppure
quando siamo stufi delle putrefazioni
che
ci circondano ci rifugiamo in esso…
Che
confusione…
Dio…
Quale
voce devo usare per farmi udir da chi al di fuori di quel mondo
lacera
il mio esistere tra il lamento e l’estro,
usati
con garbo contro coloro che utilizzano solo il ferro e le fruste.
Determino
il ridere sulle malformazioni del mio stesso credo
e
traduco il canto di un tenore di vita eccelsa
in
un ambiguo linguaggio di poveri uomini che, nel perso del presente,
ricercano
la certezza del vivere il candido giorno.
Ovattato
e sentito dovere di raccontare il tempo
senza
rancori e castità mentali,
al
germogliar di schiume nate da salive rimaste illese
dagli
acuti nati in mascelle senza pretese.
Ed
il tardi arriva e l’incubo che approda alla soglia del cuscino,
dove
si adagia il sogno già vissuto,
si
rifiuta di accarezzarmi ancora,
dato
l’oltraggio con il quale ho descritto il sogno.
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