Quattro
pertiche
ombreggiano il lato oscuro di un giardino
fermando
l’allegria voluta da un solitario raggio di luna.
L’odore
nauseante emesso da quelle latte
dimenticate
sul bordo di rinsecchite staccionate,
fa
commentare di un esiguo passaggio d’uomini
vestiti
da miseri indumenti
lasciati
marcire insieme a quella ruggine,
diabolicamente
divenuta di un bianco candido,
forse
per l’invidia di quelle rose concimate
dal
passaggio di strani sorrisi.
Una
materia non ben identificata molto densa
ma
fluida s’immerge in me,
conducendomi
verso l’unica luce non artificiale
che
ancor schiarisce il rosso dei mattoni,
appartenenti
ad un paese arroccato sul promontorio
di un mare libero da sentimenti.
Mi
conduco in esso mentre la polvere mi acceca,
la
malavoglia mi prende come a ricordarmi
che
le fondamenta di quel mostro,
accogliente
ora i miei sospiri, le gettai senza sapere
che
tu Candida
le
ornavi di merletti e profumi.
Nel
tempo trovammo la materia per dar vita alla vita,
ma
non ci donò l’amore eterno.
E
così mi hai detto addio
come
la mollica del pane, quando si stacca dalla crosta secca.
La
trasparenza dei liquidi che imbandivano il tavolo del giorno
non
lasciava trasparire la forza
con
la quale il peso di un’anima mai nata voleva confondermi,
come
la pioggia penetrante negli occhi
quando
il nocciola dei tuoi occhi
non
sapeva mimetizzarsi al dolore che ci ha uniti.
L’indifferenza,
dimostrata attraverso incredule smorfie,
è
costellata da un insieme di confini molto simili tra loro,
imbevuti
dalla stessa ninfea dal sapor salmastro
e
dal profumo di un denso tale…
da
far denudare anche il più casto amore al chiaror di quella luna,
l’unica
capace di far emergere dalle sue ombre
pertiche
tanto possenti dal non farci più sentire nell’animo
il
sacrificio di vivere insieme,
tra
le onde
e
la noia dell’attesa.
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