Chinando
il
capo verso la nebulosa terra
ceca dei passi sofferti,
mi
accingo a canzonarle l’immensità celata
nel
suo rugoso affacciarsi al limpido universo.
È
un bagliore ingenuo il modo in cui riporti l’obesità dal nulla,
ma è impegno ungerti della vita,
anche
se distorta dal culto dell’odio.
Strumenti
taglienti infrangono le viscere dei meriti
riconosciuti
con silenzi paternali,
eleganti
tocchi tra dita diverse confermano l’Estraneo,
vivente
accanto al nostro andare verso vertiginosi incontri;
è
bello sai, ci si
sente protetti,
come le radici che or calpesto col sol
pensiero,
impresse
su creta giovane.
Strani
cortili si affacciano all’ombra di salici
dai
quali si ode un cinguettio struggente,
ciò
mi porta a dir: dove canta ormai la tua mente,
se
non vive più tra il rosso di questi mattoni?
Il
vuoto mi
circonda e le stelle disegnano il volto tuo
roteante
come il suolo
e
lì ti perdo mentre osservi l’orizzonte d’altri cieli,
cieli
in cui manca il sapor delle more,
crescenti
nei rovi di quest’angolo steccato ai tempi dei confini.
Nel
tornar nella pianura eterea ritrovo il calor
del tuo cammino,
infangandomi
delle meraviglie di cui sono circondato
come
una bestia innamorata
ricerco
attraverso tanti profumi,
l’odor
più somigliante alla tua pelle
e
trovandomi d’improvviso immerso tra fiori di ginepro,
cerco
di raccoglierne sol uno per farne un totem delle notti,
mentre
il lacerante grido di serpi indiavolate
sconvolge
l’attimo,
costringendomi
alla pena.
Ma
non demordo, so che ci sei e quanto più il silenzio si fa zitto
più
conferme ottengo della tua padronanza
sulla
celata visione di noi in carne.
Mi
seggo un attimo su di un tronco
poc’anzi
ritagliato per ricavarne figura per un collage,
ci
sto comodo ed incredulo,
finalmente mi viene confermato un angolo
in quest’Arem immaginario,
accanto
a te ritaglio di una vita vissuta
nella
rugiada dei soli occhi.
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