Al
riparo
dallo stretto morso di fame nera,
accordati
con gentil pregio al tuo perdono,
o
vellutato saluto d’esseri astratti fuggiti alla vista del mio sogno.
Sento
lo zoppicante ma cauto brusio di gommose voci
piene
d’estro e intelligenza.
Gobbo
è il camminar tuo, mentre incontri il falso ospite dell’amore.
Ed
or che indossi cravatte con figure inerti,
t’illudi
di poter non più raccontarmi.
Attenta
però agli oggetti da te calpestati come fossero granelli di sale,
potresti
ritrovarti con le suole consumate e la voce rauca
dal
gridar vendetta,
dato
che ti mancherò.
Cordure
forti senza fine detengono il mio respiro;
frasi
nascenti al di fuori della mente contorta d’uomini senza ansia
fan
credere di essere in emergenza d’odio, anche se,
le tempere con le quali eleganti mani hanno
espresso un carattere forte,
si
ritraggono dal dover sfiorare setole di pane crudo.
L’odore
acro dell’abbandono diventa sempre più potente,
non
basta la salita ancora nel pieno del suo svilupparsi
a
farlo annegare nel cupo dei malfatti;
e
poi si prega senza indirizzo,
quasi
si voglia somigliare a canti senza origini e finali,
quasi
a donar a lapidi di gente conosciuta fiori senza petali e steli,
ma
di certo con il ricordo del profumo.
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