L’erba
madida
d’acri sudori si aggrappa alle caviglie
così
a frenare
le
gambe su fosse che gli occhi non vedono.
La
mente in uno sgomento innaturale
porta
all’involontario e macabro desiderio
di
volerle esplorare grattandone le pareti con le unghie
per
l’intera profondità;
il
suolo sul quale si adagia la caduta,
con
il suo liquame lava le ultime scorie
legate
ad un nudo mai fiorito,
il
freddo, la solitudine, il silenzio,
la
polvere che acceca il dolore dovuto
a
muscoli atrofizzati dalla mancata corsa,
rispecchiano
un addio scritto con polline di lilium
su
disegni dorati pronti ad essere donati
ad
anime giudicate per il loro perverso essere state,
anche
se per breve tempo,
la
fibrillazione di un unico grande amore.
Vita
mia,
non
è ridicolo questo modo fantastico
di
descrivere il tuo allontanarti
dal
luogo in cui rifugerò il mio stare senza te.
Non
lasciarmi,
continua
a trafiggermi in ogni istante con la spada dell’ansia,
sopporterò
il dolore,
addentrati
con malizia nella scia
nata
dalla voglia di star legati alla fragilità,
ne
regneremo l’eterna unione,
e
tanto diremo a melodie che verranno per far danzare l’oscurità
tra
i riflessi delle nostre stelle,
sarà
amalgamato con il giusto timore
tradurre
i giorni vissuti in un indimenticabile attimo,
il
tuo grembo ne sarà lo scudo,
i
venti porteranno all’origliare delle porte dei miei angoli
la tua preghiera,
in
nubi solitarie nasconderò il pianto,
quando
descriverai il seme che ha dato vita alla vita
la
quale ti accompagnerà su di un prato
dove
l’erba
non
catturerà mai le tue caviglie.
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