Prima
dell’aquila
porto le mie ali fuori della tempesta,
il
nero della polvere sparato con furbizia mi acceca lentamente
ma
gli artigli son pronti a trafiggere la roccia.
Il
freddo soffoca il pensiero ed il tragico resta nel tuo sapore
impregnato solo del mio sguardo.
Depongo
i segreti carpiti da pagine ingiallite in intrecci di fanghi,
alla
sola portata di delicate nubi pronte a celarne gioie e castighi.
Rivolgo
il capo all’azzurro del mare
perché
da esso pretendo la preghiera del cielo
così
mi abbandono nel suo immenso
e ritrovo la forza per un innalzo da re.
Ma
l’oro sottratto per arricchire l’amor mai avuto,
non
l’ho rubato trasformandomi in gazza,
l’ho
ricavato dalla cultura
con
la quale nell’infantilismo mi dicevi,
sei
un rapace
che
nell’universo deve esternare ancora il riflesso del giorno,
a
chi per la foga di avermi per trofeo,
ha
fatto sì che il vento non graffi più questo volto poco piumato.
Che
imbecille ero quando rifiutavo la saliva di mia madre
tra
avanzi di corallo,
ancora
non leggevo ciò che con le tenere piume
scriveva
sulla scia di un illusione poco terrena.
Tremavo
al sol pensiero di dover trafiggere l’invisibile
com’Ella
faceva mentre mi diceva addio.
Che
emozione che brivido l’essere tra luce senza calore,
un
estremo piumato,
fa
quasi rimpiangere d’essere un uomo senza pelle tra raggi di luna
che
appena percepibili danno letizia a questo nido
dove
mentre mi addormento
penso
di rifugiarmi assieme alla forza dei miei artigli.
E
l’elegante cacciatore piange ad un sogghigno mai identificato
proprio
quando nell’era evoluta,
con
le piume hanno scritto in quelle pagine
in
cui un incerto figlio di DIO
leggerà
il suo futuro.
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