mercoledì 28 novembre 2018

PAG.25




Prima dell’aquila porto le mie ali fuori della tempesta,
il nero della polvere sparato con furbizia mi acceca lentamente
ma gli artigli son pronti a trafiggere la roccia.
Il freddo soffoca il pensiero ed il tragico resta nel tuo sapore
 impregnato solo del mio sguardo.
Depongo i segreti carpiti da pagine ingiallite in intrecci di fanghi,
alla sola portata di delicate nubi pronte a celarne gioie e castighi.
Rivolgo il capo all’azzurro del mare
perché da esso pretendo la preghiera del cielo
così mi abbandono nel suo immenso
 e ritrovo la forza per un innalzo da re.
Ma l’oro sottratto per arricchire l’amor mai avuto,
non l’ho rubato trasformandomi in gazza,
l’ho ricavato dalla cultura
con la quale nell’infantilismo mi dicevi,
sei un rapace
che nell’universo deve esternare ancora il riflesso del giorno,
a chi per la foga di avermi per trofeo,
ha fatto sì che il vento non graffi più questo volto poco piumato.
Che imbecille ero quando rifiutavo la saliva di mia madre
tra avanzi di corallo,
ancora non leggevo ciò che con le tenere piume
scriveva sulla scia di un illusione poco terrena.
Tremavo al sol pensiero di dover trafiggere l’invisibile
com’Ella faceva mentre mi diceva addio.
Che emozione che brivido l’essere tra luce senza calore,
un estremo piumato,
fa quasi rimpiangere d’essere un uomo senza pelle tra raggi di luna
che appena percepibili danno letizia a questo nido
dove mentre mi addormento
penso di rifugiarmi assieme alla forza dei miei artigli.
E l’elegante cacciatore piange ad un sogghigno mai identificato
proprio quando nell’era evoluta,
con le piume hanno scritto in quelle pagine
in cui un incerto figlio di DIO
leggerà il suo futuro.

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