mercoledì 28 novembre 2018

PAG.44




Quante braccia s’innalzano a giustificar resa,
lo sguardo si abbassa,
ma di fronte solo orme ricolme da un ingiallito fogliame;
le ginocchia vengono fasciate 
finchè non diano sgomento per il mal subito
nella lunga ritirata da quella palude ricordata come il lago di ghiaccio.
Un morso stringe in petto,
è la fame provocata dall’assenza di scaglie di primavera
illibate perché celate dall’odio e l’intolleranza.
Dal monastero si sprigionano dolci aromi,
dalle mura si calano resistenti funi
da cui si distaccano fiori e linfa a disegnar la parola:
aggrappati sulla roccia circostante.
Un volatile conferma l’esultanza di un paese vicino,
il bivio è contorto,
le mani tremano mentre stringono un chicco di mais
maturo dal troppo tempo,
 dimenticato in un pezzo di stoffa sgualcita.
La terra rossa ricopre d’allegria un gergo
apostrofato dall’insonnia,
provocata dal pungere d’aliti familiari a vertigini corporee.
La sensazione d’esser stati sbarbati durante un lungo letargo,
la leggo nel lucido delle mie unghie un tempo mai cresciute
per timore di graffi improvvisi.
Il fruscio adibito a sottili voci,
ora avvicinatosi alla voglia di un abbraccio,
è quasi diventato un canto formato da vocaboli trasformisti.
E’ passata come un riflesso nell’acqua
pronta a rinfrescarmi il viso,
l’ombra del tuo corpo,
l’ansia mi prende, il ricordo è lontano,
a fatica le gemme che mi circondano, mostrando il loro essere,
mi ricordano i colori di cui ti coprivi
 in quelle eccelse feste ballate.
I sandali che calzano i miei piedi hanno poco cuoio
e davanti alla sorgente non sento il grido della roccia.
La gioia è lontana e forse mai esprimerà
il suo velo in questa valle.
Credo quindi di saggiare quella corda
nell’inutile o nel gergo che si usa
per il sollievo dell’animo
senza corpo.


Nessun commento:

Posta un commento