Quante
braccia
s’innalzano a giustificar resa,
lo
sguardo si abbassa,
ma
di fronte solo orme ricolme da un ingiallito fogliame;
le
ginocchia vengono fasciate
finchè
non diano sgomento per il mal subito
nella
lunga
ritirata da quella palude ricordata come il lago di ghiaccio.
Un
morso stringe in petto,
è
la fame provocata dall’assenza di scaglie di primavera
illibate
perché celate dall’odio e l’intolleranza.
Dal
monastero si sprigionano dolci aromi,
dalle
mura si calano resistenti funi
da
cui si distaccano fiori e linfa a disegnar la parola:
aggrappati
sulla roccia circostante.
Un
volatile conferma l’esultanza di un paese vicino,
il
bivio è contorto,
le
mani tremano mentre stringono un chicco di mais
maturo
dal troppo tempo,
dimenticato in un pezzo di stoffa sgualcita.
La
terra rossa ricopre d’allegria un gergo
apostrofato
dall’insonnia,
provocata
dal pungere d’aliti familiari a vertigini corporee.
La
sensazione d’esser stati sbarbati durante un lungo letargo,
la
leggo nel lucido delle mie unghie un tempo mai cresciute
per
timore di graffi improvvisi.
Il
fruscio adibito a sottili voci,
ora
avvicinatosi alla voglia di un abbraccio,
è
quasi diventato un canto formato da vocaboli trasformisti.
E’
passata come un riflesso nell’acqua
pronta
a rinfrescarmi il viso,
l’ombra
del tuo corpo,
l’ansia
mi prende, il ricordo è lontano,
a
fatica le gemme che mi circondano, mostrando il loro essere,
mi
ricordano i colori di cui ti coprivi
in quelle eccelse feste ballate.
I
sandali che calzano i miei piedi hanno poco cuoio
e
davanti alla sorgente non sento il grido della roccia.
La
gioia è lontana e forse mai esprimerà
il
suo velo in questa valle.
Credo
quindi di saggiare quella corda
nell’inutile
o nel gergo che si usa
per
il sollievo dell’animo
senza
corpo.
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